Ottobre 18, 2017

«Play more, then come back». Storie di beach e di sogni in Cambogia 

Tommaso Dotta

Sabato 29 ottobre 2016, atterro a Phnom-Penh e incontro subito Walter, amico fraterno che vive a Bangkok, con il quale passeremo il weekend insieme, prima che io parta per due settimane di viaggio in bicicletta. Montiamo su un tuk-tuk (un motorino che traina un calesse), partiamo verso il centro città e, dopo neanche un centinaio di metri, ecco comparire un campo da beach. Penso:

Pazzesco, un campo di beach volley qui!

Dopo soli 10 minuti di strada ne conto quindici. Il beach volley, o comunque la pallavolo di strada – ho poi appreso per deduzione – divide con la boxe lo scettro di sport nazionale cambogiano.

Il giorno dopo, dentro un tempio buddhista e con una rete arancione da cantiere appesa a due pali, debutto in una partita di (credo) 15enni. Loro saltano come grilli, io provo a difendermi: un paio di schiacciate le tiro malamente in rete per troppa foga, ma — grazie a qualche centimetro in più — riesco a piazzare altrettanti muri vincenti, strappando qualche timido ‘5’ dai miei compagni di squadra.

Beach Volley Cambogia

Intuisco che l’interpretazione delle regole del beach volley, qui, è particolare: si può ricevere in palleggio (trattenuto), si può accompagnare (parecchio) e la schiacciata assomiglia più a un tiro di pallamano che non a un colpo secco. I giocatori locali sembrano ragni dotati di misterioso potere levitativo, nel senso che saltano tanto e ‘galleggiano’ ancora di più.

Una settimana dopo, pedalati i primi 600 chilometri, arrivo a Banlung, estremo Nord Est del paese, 17 mila abitanti, altrettante palme e — soprattutto — un campo da beach quasi perfetto.

Rete tesissima, terra battuta come al Roland Garros e un pallone che sembra averne vissute davvero tante.

Terra battuta pallavolo Cambogia

Ho capito subito che lì non si scherzava quando la prima partita che ho guardato, dalla panchetta in legno posizionata a fondo campo, è stata un due contro uno. E l’uno — che poteva fare 3 tocchi da solo — ha letteralmente dominato, recuperando palloni impossibili. In pantaloni lunghi grigi con risvoltino e infradito in plastica.

Less is more, ma soprattutto: arrangiarsi is ok

Il giorno successivo (domenica 6 ottobre) mi faccio coraggio: prima — alle due di pomeriggio — guardo un’altra partita dalla panchetta per farmi vedere dalla community dei beachers, poi — alle quattro — torno, questa volta in pantaloncini, e chiedo di poter giocare. Penso:

Dopo 1 mese e mezzo di corso intensivo a Playmore Moscova (Milano), e un argento olimpico tifato dal divano, cosa sarà mai un campetto in terra battuta di Banlung?

Veni, vidi, vici, era la storia che già vedevo scorrere sul grande schermo. Vengo preso in simpatia, ma con la simpatia non si va lontano: devo passare un test. Il campo si svuota, tutti si dispongono ai bordi, entra il coach, fischietto al collo, palla in mano e mi indica. Tolgo sandali e maglietta: «Eccomi Mister». Si mette in alzata, capisco che il test è una schiacciata.

Sbam!

È sicuramente la miglior schiacciata della mia (breve, a dir la verità) carriera di beacher: tempismo, potenza e angolazione. Le aspettative si alzano, forse troppo, ma tant’è: sono ammesso. Subito si fanno avanti i 2 migliori. Un terzo che sembra promettente chiede se può giocare lui con me.

Sure my friend, high five!

2 contro 2, non ci sono alibi, e chi perde paga i 2 dollari del campo. Il mio compagno (Koh Na) e io ci crediamo, l’eccitazione nel pubblico è alle stelle. Rombano i motorini dagli spalti. Che non esistono — gli spalti, di motorini è pieno — ma per me è come se ci fossero.

Dura poco, anzi pochissimo. Il duo Hun Sena e Son Beng ci domina sin dal principio, anche psicologicamente.

Si gioca col cambio palla e vengo subito bersagliato da una battuta in salto poetica nella sua potenza, imprendibile per il mio fragile bagher. Chi batte, Hun, è la reincarnazione cambogiana di Zaytsev e Sartoretti: è come se la palla fosse un prolungamento del suo braccio. Mi punta ripetutamente e, quando non sbaglio la ricezione, poi sbaglio la schiacciata. Un attimo ed è 6–0. Col cuore ci facciamo “sotto” (6–2), poi è un dilagare. A metà partita il mio compagno abbandona, senza neanche salutare.

Entra un sostituto; è più scarso quindi andiamo d’accordo. Secondo me a 6 ci siamo arrivati. Alla fine devo anche averli impietositi: il campo ci viene offerto dal centro. Provo a pagare e mi sorridono, pacca sulla spalla e:

No problem my friend: play more, then come back!

[fve]https://www.youtube.com/watch?v=5dbyCHasMCY[/fve]

La potenza dello sport come linguaggio universale è anche, e soprattutto, un’altra. La sera, mentre sto camminando a testa bassa dopo aver fatto la spesa per il giorno successivo (sveglia ore 4:30 per 150 chilometri di bici), sento: Tom, Tom!

È lui, la mia nemesi, il battitore volante, Hun Sena. Con la moglie, il bambino di un anno e un amico sono seduti a bordo strada: tavolini in ferro, sedie rosse in plastica, ombrelloni vari e quell’assenza di soluzione di continuità che mi ha fatto innamorare della concezione di spazio pubblico asiatica. Sono luoghi coperti-aperti che invitano naturalmente all’incontro.

Mi invita a sedermi con loro, beviamo qualche birra (Ganzberg), ridendo della partita e conoscendoci meglio.

Volley e incontri in Cambogia

La moglie, Reaksa Noun, è l’insegnante di inglese del paese; fierissima della padronanza che ha della lingua, usa termini ricercati e parla apposta molto veloce prendendo in giro suo marito quando lui non capisce. Mi racconta che si sono conosciuti proprio a una sua lezione.

Quando poi chiedo a Hun che lavoro fa, mi risponde:

I work as tuk-tuk driver here in Banlung, but when no turists, I play volleyball with friends all day.

Confrontiamo poi le nostre vite, che una cosa in comune ce l’hanno: ci bastano un pallone e una birra con gli amici per essere felici.

Quella sera lo sono ancora di più. Ho trovato negli occhi di tre coetanei una luce e tanta energia. E non è cosa comune, qui in Cambogia, dove una storia troppo recente, e dimenticata troppo in fretta, ha distrutto il filo generazionale di tradizioni, cultura e sogni, collettivi e individuali.

«Sport has the power to change the world» diceva Mandela. Non so se lo sport cambierà la Cambogia, quello che so è che una partita di beach volley mi ha permesso di scoprire storie piene di speranza e voglia di futuro. E poi mi piace pensare che spesso i luoghi comuni ci azzeccano.

A Milano, intanto, mi sono iscritto al corso primaverile di beach: to play more, and then come back.


Una storia di Tommaso Goisis: ecco l’articolo completo in versione originale